An excerpt from Falange armata
Carlo Lucarelli
2.
Sto sognando che sono al cinema a guardare Terminator 2, bestiale!, quando una signora grassissima si siede nel posto accanto al mio e mi schiaccia col sedile ribaltabile la mano che lasciavo penzolare. Sento un male becco, ma non posso urlare, perché Schwarzenegger sta sparando con il mitra e i colpi mi coprono la voce e la signora, maledetta, non si sposta, e anche i pugni che le tiro contro una spalla affondano inutilmente nella sua ciccia molle, e allora metto la mano sotto la giacca per prendere la pistola, ma mi accorgo con un brivido ghiacciato che la fondina è vuota. È l’angoscia che mi sveglia, prima ancora della fitta acuta alla mano sinistra, da cui capisco che stavo dormendo sul dito incrinato.
Sospiro, mi passo le mani sul volto e bestemmio, nel buio, perché mi sono sbattuto l’alluminio di questo cazzo di steccatura sull’osso del naso. Mi alzo a sedere sul letto e guardo la sveglia. Fossi mai riuscito a distinguere qualcosa con quelle minchie di numeri fosforescenti... mi pare che segni le tre. Le tre di notte? Merda!
È un po’ di tempo che non riesco più a dormire. Fino a un mese fa era per il caldo, ma adesso, che è iniziato settembre e fa fresco, possibile che resti tutte le notti con gli occhi aperti come una civetta a fissare il soffitto? Boh...
Metto le gambe fuori dal letto e muovo la testa sulle spalle, con il collo che crokrokrokkia, fastidioso. Devo tornare in palestra, penso, mentre guardo i manubri da dieci chili appoggiati al muro, sul pavimento, illuminati dal riflesso di un lampione della strada, e quasi quasi mi viene l’idea di fare un po’ di esercizio. Già, e il dito?
Mi alzo del tutto e comincio a vestirmi, perché quando mi sveglio così, a metà della notte, l’unica è uscire a fare un giro. Guidare mi rilassa, e io ho un turbo Gt sedici valvole con una modifica speciale che gli ho fatto fare io... lascia che arrivi sui colli, e Mansell mi fa una sega. M’infilo la camicia nei pantaloni, allaccio la fondina sotto l’ascella e prendo la pistola dal comodino. Una volta la tenevo nel fodero, appesa alla testiera del letto come quello di Arma Letale 3, bestiale, poi, girandomi nel sonno, mi sono agganciato l’orecchio alla fibbia del cinghino e, madonna mia, ancora non ci posso pensare. Mi hanno dato due punti. In Questura ho dovuto dire che era stato un marocchino.
Fuori, con tutti e due i finestrini aperti e l’aria della notte che mi turbina attorno come un uragano, mi sveglio completamente. Corro sui viali, dritto davanti ai semafori che lampeggiano gialli, e agli incroci faccio rombare il motore, senza aprire del tutto però, perché con l’additivo detonante che ho messo nella benzina finisce che mi sentono fino a San Luca.
Bologna è piena di gente, a quest’ora. Sono le tre e mezzo passate di mercoledì notte, ma c’è un casino di macchine per la strada, tanto che devo rallentare vicino al centro, imbarazzato dal dito dritto nella stecca di metallo, che non riesco ad appoggiare al volante. Mi passano davanti una Mercedes nera con dentro un tipetto piccolino dall’aria sfigata, calvo e con gli occhiali, assieme a tre fighe da copertina che mi guardano come fossi una merda, poi una Diane azzurra, che mi si ferma accanto, al semaforo, mentre una ragazza sprofondata nel sedile del passeggero, con tutti i capelli sulla faccia e i piedi agganciati al cruscotto come una scimmia, mi lancia un’occhiatina rapida, prima che scatti il verde e l’auto si allontani ondeggiando sulle ruote, mostrandomi il culo arrugginito con una decalcomania di Bob Marley appiccicata sopra. Sto già pensando di correrle dietro, perché di sicuro quelli hanno addosso almeno un po’ di fumo, quando poco prima di Porta Saragozza m’infilo nella coda degli stronzi che vanno a puttane e resto imbottigliato come in autostrada a ferragosto. Sono sul lato delle austriache, e una biondina con un impermeabile di vernice gialla passeggia avanti e indietro sui tacchi, con aria indifferente, poi si prende le falde del soprabito e distrattamente, guardando da un’altra parte, se lo apre, mostrando tette, pizzi e mutande. La 127 verde davanti a me inchioda e io la evito per un centimetro, cristo!, e solo perché ho notato il rosso degli stop con la coda dell’occhio. Rinuncio ad andare sui colli, con questo dito non ci sarebbe gusto, e rimango sui viali. Dal semaforo in poi so che ci sono le slave, ma io non ho mai capito da cosa si distinguono, perché mi sembrano tutte uguali, biondine, morettine, carine, nude, cinquantamila di bocca oppure scopare, centomila casa mia... Mi accorgo che non si aprono più il soprabito e guardano tutte in alto, seccate, quando gli passo davanti, così mi sollevo sul sedile per specchiarmi nel retrovisore e vedere che cazzo ho, ma mi sembra tutto normale, la faccia, i capelli con la riga, la giacca e la cravatta, la pistola sotto, che non si vede... finché non noto la paletta di plastica bianca e rossa che ho preso alla Stradale e che ho dimenticato sul cruscotto, merda!, proprio sotto il parabrezza. Allora la infilo sotto il sedile, faccio inversione all’incrocio e risalgo dall’altra parte, dove ci sono le negre, e mi viene in mente di chiamarne una per poi tirare fuori il tesserino e divertirmi un po’ a fare lo stronzo, poi penso che queste menano. Carrone è andato in giro una settimana con il segno di un tacco sulla fronte, e io non ho certo paura di una puttana, ma se mi becco una scarpata da una negra, cazzo, finisce che le sparo. Giro sul ponte e scendo verso la Fiera, dove ci sono i travestiti e un traffico così intenso che sembra Rimini d’estate, ma a me i finocchi fanno schifo e mi basta vederne uno altissimo, con le gambe da calciatore e le tette finte che gli scoppiano dentro un bustino fucsia, per cambiare idea. Però vedo una volante del Controllo territorio, ferma a un lato della strada, e due agenti fuori che parlano con un tipo che indossa una giacca spinata e un marocchino. Lampeggio con gli abbaglianti e accosto al marciapiede, dietro l’Alfasud bianca e azzurra. Un agente mi guarda male e fa cenno con la mano di andarmene, ma appena tiro fuori il tesserino alza le sopracciglia, desolato, e si porta le dita all’orlo del baschetto. Dalle portiere aperte della macchina di servizio esce il fruscio da frittura mista di pesce della radio accesa, che copre una voce confusa e intermittente, di cui capisco solo una cosa come «Minchia, brigadie’», ripetuta un mucchio di volte.
– Che succede? – chiedo, curioso.
– Tentata rapina... – dice il più anziano, che ha in mano un coltello a scatto, aperto, – a una guardia medica che tornava in motorino da una chiamata... – e indica l’uomo con la giacca spinata che ha davanti, curvo, le braccia incrociate sul petto. Il marocchino, invece, è appoggiato alla macchina, ha le mani infilate in un giubbotto di pelle grigia, dai gomiti scoloriti, e guarda in basso, fissando l’asfalto. Lancio un’occhiata di disapprovazione all’agente anziano, poi tiro uno schiaffo secco sulla coppa del marocchino.
– Togli il culo dalla macchina, stronzo, – gli ringhio addosso, – e via le mani dalle tasche!
Mi guarda con gli occhi fuori dalla testa e la bocca spalancata per prendere aria, senza riuscire a parlare, e io sto per dargli un altro pattone quando sento l’agente tirarmi per la giacca con uno strattone che quasi mi spoglia.
– Ma no! Che fa, sovrintendente? Quello è il dottor Kalili, del Sant’Orsola... il rapinatore è questo qua!
Penso: «Madonna che figura di merda!», e m’irrigidisco, senza sapere più cosa fare. Mi giro verso l’uomo con la giacca e gli tiro un calcio nel sedere che lo fa sobbalzare, poi m’incazzo con l’agente anziano.
– È questo il modo di fare? Perché non ha le manette, questo qui? –
E pum, un altro calcio.
L’agente allarga le braccia, mentre quello più giovane fa finta di non vedere, e il dottor Kalili, porca puttana, prende fiato e comincia a buttare fuori una valanga di parole che lì per lì mi sembrano arabe, invece no, sono italiane e, cazzo, parlano di denuncia.
«Minchia, brigadie’!» La voce esce netta dalla radio, nonostante il fruscio e riconosco la voce di Baraldi, della centrale operativa, che risponde alla chiamata di una volante. «Pilastro... conflitto a fuoco... volante sul posto... minchia, brigadie’!»
Capisco solo qualche parola, ma mi basta. Mollo gli agenti con lo stronzo in giacca spinata, corro alla macchina e parto rombando, mentre il dottore marocchino agita il pugno in mezzo alla strada, e mi manda a fare in culo prima in arabo, poi in francese e in italiano.
Il Pilastro è grande e io non so dove andare, ma m’incollo al sedere di una volante che mi sorpassa ai 160 e le resto attaccato finché non si ferma nel parcheggio di un casermone grigio, illuminato dalla luce blu di un lampeggiatore acceso. È pieno di gente e c’è un gran casino tutt’attorno... ci sono due auto della polizia e una dei carabinieri, ci sono uomini in vestaglia, donne in pantofole con le mollette in testa, un agente giovane che vomita appoggiato a un cassonetto e un fotografo del «Carlino» che scatta a raffica su qualunque cosa. Scendo dalla macchina e cerco d’infilarmi attraverso il muro di gente che chiude un angolo del parcheggio, tra un’auto lasciata di traverso e un furgoncino, poi vedo uno della Mobile che conosco e lo prendo per un braccio.
– Che c’è? – chiedo.
– Permessooo!
Una mano sulla schiena mi fa sobbalzare. Nardini, il medico legale, che dev’essere sceso dall’ambulanza che fa manovra per entrare nel parcheggio bloccato da qualcosa davanti allo scivolo, mi spinge da parte, poi socchiude le palpebre, fissandomi dietro le lenti spesse degli occhiali che riflettono i bagliori lividi del lampeggiatore.
– Toh! Coliandro... che ci fai qui? Sei caduto dal letto? Vai a farti un giro, perché se mi svieni anche stavolta ti lasciamo per terra... non ho tempo per badarti, adesso, c’è un morto là in mezzo.
Mi passa davanti, urtando un carabiniere, e io rimetto la mano sul braccio di quello della Mobile, che se non sbaglio è solo agente scelto quindi è tenuto a non fare lo stronzo con me, che sono sovrintendente. – Che c’è? – ripeto.
– Hanno sparato a un collega fuori servizio. Stava portando a casa la fidanzata e ha notato qualcosa dietro un furgone, nel parcheggio... c’era un tipo con una ragazza, che urlava aiuto come se la stesse violentando, lui c’è andato, si è fatto riconoscere e il tipo gli ha sparato quattro colpi nella pancia.
– ’Azzo!
– Già... bella sfiga. Se capitava a me, tiravo dritto e chiamavo una volante. Ora però devo andare, scusi.
Si svincola e s’infila nel muro di gente. Approfitto del fatto che è grosso e lascia un bel buco comodo per seguirlo fino al centro, dove il flash di una testa di cazzo d’un fotografo mi acceca completamente per qualche secondo. Quando ricomincio a vedere qualcosa, tra i riflessi lucidi che mi appannano la vista, noto prima i cerchi gialli, con i numeri scritti vicino, tracciati col gesso sul cemento del parcheggio, attorno ai bossoli, alla pistola e a una scarpa. Poi vedo il calzino a righe verdi del collega, e il collega, cristo!, immerso in almeno un barile di sangue scuro che si allarga in una pozza sotto la schiena e si restringe in un rivolo sottile, fermo solo a qualche centimetro dalla grata di un tombino. Mi si contrae lo stomaco, mentre mi fischiano le orecchie, ma mi passa immediatamente, perché il cuore comincia a battermi fortissimo, di colpo.
Ho visto la faccia del collega, con gli occhi chiusi e la bocca aperta, e l’ho riconosciuto subito. È il celerino che stava con me, allo stadio.
– Che cazzo è ’sto bordello? Fuori tutti quelli che non c’entrano! – La voce del questore, netta e bassa come una fucilata, mi fa trasalire. – Sveglia, signori! Via dalle palle quei curiosi! E ditemi chi cazzo è quel coglione che ha lasciato la macchina in mezzo allo scivolo, che blocca l’ambulanza!
Un brivido freddo mi sale lungo la schiena, facendomi stringere le mascelle. Mi volto a guardare, poi schizzo come un razzo, con la mano in tasca a cercare le chiavi. L’auto in mezzo allo scivolo, che blocca l’ambulanza, è proprio la mia, merda
© 1993 by Carlo Lucarelli / Agenzia Santachiara
Republished in Carlo Lucarelli (2009). L’ispettore Coliandro. Nikita; Falange armata; Il giorno del lupo. Turin: Einaudi.